SONJA QUARONE Catalysis



Gli oggetti transienti di Sonja Quarone
di Ivan Quaroni

“La vita – questa prosopopea della materia”
(Emil Cioran, Sillogismi dell’amarezza, 1976)

“La grazia è bellezza in movimento”
(Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, 1766)

Il rapporto con la densità fisica, lo spessore e la consistenza della materia è stato un tema centrale dell’arte del secondo dopoguerra, tanto da generare una sorta di automatica associazione tra alcuni materiali e certi artisti. Basti pensare all’alluminio fresato delle Superfici a testura vibratile di Getulio Alviani; ai supporti di cellotex di Alberto Burri; ai cementi armati con le impronte della cassaforma di Giuseppe Uncini; alle assi di legno delle silhouette di Mario Ceroli; alle lastre d’acciaio specchiante di Michelangelo Pistoletto; o ai tronchi d’albero di Giuseppe Penone. Insomma, ci sono artisti che hanno stabilito un rapporto d’elezione con supporti, sostanze e materiali che poi hanno finito per caratterizzare buona parte della loro ricerca.
Nel caso di Sonja Quarone questo materiale è la resina. Della resina, peraltro ormai stabilmente inserita nel novero dei materiali usati dagli artisti contemporanei, Sonja Quarone conosce ogni aspetto, ogni sfumatura, ogni applicazione, dagli usi comuni nel campo dell’architettura e dell’arredamento a quelli, più personali e sperimentali dell’arte. Su questa conoscenza, su questa téchne che è una forma di perizia insieme manuale e intellettuale, si fonda tutta la sua recente indagine artistica, una ricerca che coinvolge non solo gli aspetti plastici e cromatici della resina, ma anche quelli dinamici. La resina è un materiale viscoso capace d’indurirsi a caldo o a freddo, ed è proprio nella fase di transizione dallo stato fluido a quello solido, che, sta il segreto dell’opera dell’artista.
Molte delle sue opere plastiche e delle sue installazioni hanno, infatti, un carattere anti-statico, possiedono, cioè, una sorta di tensione motoria che ci dà l’impressione che esse siano fatte di una materia viva e vibrante, non ancora cristallizzatasi in una forma definitiva. Per ottenere questo risultato, l’artista sfrutta l’intrinseca natura mobile della resina, utilizzandola sia come elemento formativo, plastico, scultorio, sia come fattore estetico e cosmetico.
Sonja Quarone parte da un oggetto, solitamente la riproduzione in scala di una statua antica, come ad esempio la Nike di Samotracia, il Laocoonte vaticano, la Venere di Milo o il colossale Piede di Costantino dei Musei Capitolini, per poi trasfigurarlo in una dimensione aerodinamica. In un certo senso, la sua è una procedura mutuata dalla tradizione dadaista e surrealista del recupero oggettuale, quella, per intenderci, del ready made e dell’object trouvé, ma che approda poi a esiti quasi futuristi.
In mezzo, tra questi due cardini delle pratiche avanguardiste, c’è la fascinazione per un’iconografia classica riletta in chiave pop. Non si tratta, però, di una fascinazione anacronista, da intendersi come rigurgito di un ennesimo rappel à l’ordre. A Sonja Quarone non interessa recuperare i miti classici come tali, o proporre un ritorno alle radici della cultura visiva occidentale. Le “vittorie”, le “veneri” e tutte le altre immagini di quel patrimonio sono, semmai, pretesti occasionali. Punti di partenza, appunto, che non sanciscono nulla di definitivo. L’artista potrebbe partire da qualsiasi oggetto, figurativo o astratto che sia, per indagare l’istante fluido e fuggente di una trasformazione, il momento inafferrabile di un’evoluzione fisica che è anche e soprattutto allusione alla natura instabile di tutte le cose e alla loro intrinseca adattabilità al cambiamento.
Non si tratta, quindi, di rivitalizzare il classico, magari attraverso una riflessione sul rapporto tra originale e copia, ma di reindirizzare il punto di vista dell’artista sulle cose, rigenerando un’iconografia riconoscibile, pronta all’uso, attraverso una pratica cinetica e cosmetica allo stesso tempo.
Le sue sculture sembrano, infatti, sottoposte ai potenti flussi d’aria di una galleria del vento, riplasmate per effetto della velocità, della pressione e della temperatura di una forza fluidificante. Il corpo ricoperto dalla glassa diventa, cosi, un nuovo supporto, una superficie tridimensionale su cui è possibile sperimentare una gamma di opportunità espressive. La resina pigmentata, sollecitata da un urto dinamico, investe questi prototipi anatomici sgocciolando via in una sorta di dripping tridimensionale.
Tutto è mobile, transitorio, gioiosamente impermanente in queste sculture riconfigurate, dove il corpo, antica ossessione di Sonja Quarone, diventa il paradigma di un cambiamento evolutivo, la metafora di un rigenerante soffio vitale. Insomma, niente a che vedere con i ready made duchampiani, che si limitano a una fredda decontestualizzazione di oggetti noti. C’è, piuttosto, nella procedura trasformativa e alchemica del lavoro di Sonja Quarone, una vicinanza alle pratiche del New Dada, che reintegravano l’oggetto banale nella trama discorsiva dell’arte, trasformandolo in feticcio. Tuttavia, a differenza dei feticci, che sono tradizionalmente degli oggetti statici cui sono attribuiti poteri magici o spirituali, gli oggetti di Sonja Quarone sono transienti perché “fotografano”, in senso lato, un processo di mutamento che è tipico di tutte le forme vitali.
Non è un caso che, anche in ambito installativo, l’artista sia recentemente ricorsa a un’iconografia organicistica attraverso l’allestimento di un impianto scenografico “temporalesco”, fatto di ammassi di nuvole gocciolanti di pioggia.
Il riferimento a un fenomeno naturale e meteorologico è un’ulteriore riprova del suo interesse per gli aspetti dinamici e trasformativi della natura. L’acqua, come la resina, è, infatti, soggetta a cambiamenti di stato e può assumere forma liquida o solida al variare della temperatura ambientale.
D’altra parte, il corpo umano, epitome stessa del cambiamento, pur nella ricorsiva versione tipologica dell’iconografia classica, si presta alle più svariate sperimentazioni testurali, diventa, cioè, oggetto di pattern, ossia di depositi di materia che ridisegnano l’identità anatomica degli oggetti.
Questa “riscrittura” dell’oggetto è un tipo di progettazione, un design delle forme che presuppone la capacità dell’artista di immaginare un risultato, di prevedere, quasi profeticamente, una nuova configurazione. Sarebbe un errore interpretare il dripping tridimensionale negli oggetti di Sonja Quarone come il frutto di un processo casuale o peggio di un accidente fortuito. Alla base di tutto c’è una metodologia di lavoro, una conoscenza, una téchne, appunto, che permette all’artista di orientare il risultato con il massimo grado di approssimazione.
È sufficiente osservare le sculture realizzate negli ultimi anni per accorgersi con quanta perizia l’artista sappia piegare una materia tanto vischiosa alla rappresentazione dinamica dei fluidi. E, se non fosse abbastanza, si vedano allora i suoi lavori in altri campi, come ad esempio le applicazioni della resina a spessore in architettura o della resina spatolata nell’arredamento d’interni. Sonja Quarone ha trasferito larga parte del suo know how professionale nel dominio operativo dell’arte, liberandolo così dagli obblighi della committenza e asservendolo alle necessità di una creatività più libera, ma non per questo più indisciplinata.
Abbiamo detto che l’artista è interessata all’elemento dinamico, evolutivo, trasformativo delle forme, soprattutto organiche. Forse ha intuito che in natura, tutto ciò che sembra casuale è in realtà disciplinato da leggi precise.
Come scrive Plotino in un passo delle Enneadi, “coloro che credono che il mondo manifesto sia governato dalla fortuna o dal caso, e che dipenda da cause materiali, sono ben lontani dal divino e dalla nozione di Uno”.
Dunque, esattamente come accade in natura, anche nell’opera di Sonja Quarone nulla è fortuito. Ciò che sembra casuale viene, invece prodotto o provocato intenzionalmente dall’artista, anche se l’osservatore ignora la catena di nessi causali che hanno plasmato e modellato la forma finale delle sue sculture. Una forma che incarna perfettamente lo spirito sfuggente e inafferrabile di questa modernità liquida dove, come credeva il compianto Zygmunt Bauman, la sola cosa permanente è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza.