MATTEO NEGRI L’Ego©



“L'arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate,
aggiunta di esperienze nuove, nelle forma, nel contenuto,
nella materia, nella tecnica, nei mezzi”
(Bruno Munari)

Oggi è diventato più che mai importante distinguere tra scultura e installazione, due ambiti che hanno in comune solo il dominio operativo, ovvero lo spazio tridimensionale, ma che per il resto divergono sotto molti aspetti. A differenza dell’installazione, che può essere costruita anche attraverso materiale di recupero e con l’aggiunta di componenti tecnologiche o multimediali, la scultura conserva un carattere essenzialmente, mi si passi il termine, “artigianale”. Voglio dire che essa attiene all’arte dello “scolpire”, che è capacità di formare, d’incidere o d’imprimere figure a rilievo utilizzando qualsiasi materia. Sembra una precisazione inutile, ma non lo è, dal momento che oggi, proprio in Italia, si assiste nell’ambito della giovane scultura ad un rinnovato interesse verso la pratica, verso il “lavoro”, ma con un atteggiamento tutt’altro che tradizionalista, che abbraccia non solo l’impiego di materiali e tecniche nuove, ma anche l’inclusione di temi iconografici a cui le nuove generazioni sono più sensibili.
Matteo Negri appartiene alla schiera di coloro che indagano la scultura con un approccio morfologico nei confronti della realtà, cercando di riprodurre la complessità del reale senza cadere nel virtuosismo mimetico. A Negri interessa il potenziale comunicativo delle strutture, dei pattern, delle texture, delle geometrie che sprigionano dalle forme degli oggetti. Si tratti del motore di una vecchia Guzzi o di rottami industriali recuperati nelle discariche della periferia milanese, di mine subacquee oppure di mattoncini Lego, qualsiasi oggetto può diventare evocativo se quello che si cerca è il segreto della forma, la grammatica muta delle cose. Un linguaggio che può prendere vita solo attraverso il gioco della creazione.
Nel lavoro di Matteo Negri c’è sempre stata una particolare cura tecnica, un’attenzione al modus operandi, inteso come possibilità concreta di sfidare (e vincere) la resistenza delle cose e, al contempo, una capacità di trascendere l’evidenza la loro stessa evidenza, per suggerire immagini o significati ulteriori. Come nel caso del precedente ciclo di opere, le mine subacquee, la cui struttura rimandava tanto all’architettura utopica dell’Età dei Lumi (si pensi al cenotafio per Newton di Boullée), quanto alle mastodontiche costruzioni del Gotico Internazionale. Lo stesso dicasi per altre opere dello stesso ciclo come gli acquari, dove la forma delle mine si confonde con quella dei contenitori criogenetici per la conservazione di spermatozoi e ovociti, suggerendo una non troppo velata allusione ai temi della bioetica, dalla fecondazione assistita a quella in vitro.
La capacità di Matteo Negri di evocare “altro” rispetto all’evidenza torna, se possibile, con maggior vigore anche negli ultimi lavori della serie L’Ego©, ispirati ai prodotti della celebre fabbrica di giocattoli danese. L’artista riprende, infatti, le forme del celebre Lego brick, il mattoncino in plastica rettangolare con i caratteristici cilindretti che dal 1958, anno in cui assunse la sua forma definitiva, è diventato il sinonimo di gioco e creatività. L’intento è indubbiamente quello di evidenziare come l’arte stessa sia un gioco, ironico, scanzonato, ma allo stesso tempo serissimo, come sempre lo sono i giochi infantili. In effetti, la componente ludica era presente già nelle opere precedenti, dove le mine, realizzate con un materiale fragile come la ceramica, venivano sottoposte ad una sorta di “disinnesco” ironico del potenziale distruttivo, per certi versi analogo a quello operato da Antonio Riello con la decorazione applicata su armi, bombe e aerei da caccia. Tuttavia, nella serie ispirata all’azienda fondata da Ole Kirk Christiansen nel lontano 1916, c’è qualcosa di più di un semplice intento ironico. Se si trattasse solo di questo, sarebbe ben poca cosa. Invece, Negri sceglie l’estetica del mattoncino Lego perché essa è l’emblema del modulo, della norma, del canone, della regola, su cui si fonda il gioco. Tutti i giochi sono fondati su regole ben precise, ma anche una forma ricorrente, un modulo appunto, può costituire una norma. Nel caso di Matteo Negri si tratta di una norma grammaticale, di un vincolo linguistico, così come la sfera, il cilindro e il cono di Cezanne, o le rette ortogonali e i colori primari di Mondrian. Non è un caso, che proprio le Composizioni del maestro olandese siano espressamente citate nelle opere quadrate di Negri, sculture in alluminio e legno laccati da appendere come quadri, dove le cromie di Mondrian lasciano il posto ai tipici colori dei Lego brick (rosso, nero, bianco, giallo), con la sola eccezione dei mattoncini in alluminio. Eppure, l’allusione non si ferma al De Stijl, ma coinvolge idealmente tutti i minimalismi, dal Quadrato Nero di Kazimir Malevič fino alle installazioni di Carl Andre e Donald Judd, che hanno fatto della ripetizione modulare il fondamento di una nuova estetica industriale. Anche l’omino della Lego, introdotto dall’azienda danese nel 1978 e caratterizzato da gambe e braccia orientabili e da un sorriso stampato sul caratteristico viso giallo, è un elemento modulare, che però Negri usa in un’accezione smaccatamente pop. La riproduzione ingrandita di elementi iconografici resi celebri dall’industria e dall’advertising, così come la loro ripetizione ritmica, erano meccanismi tipici della retorica Pop, intesa a trasformare l’oggetto di consumo in idolo estetico. Eppure, nelle opere di Matteo Negri l’elemento evocativo sembra prevalere sul freddo rigore formale. Il monumentale omino a cavallo di Matteo Negri è, infatti, sia un’ironica reinterpretazione delle sculture equestri che adornano molte piazze delle nostre città (e di conseguenza un’allusione a tutta la tradizione iconografica cavalleresca tardo-medievale e rinascimentale), sia un monumento, globalmente condivisibile, alla felice memoria dei giochi infantili. Giochi governati da regole, magari inventate, ma precise e dettagliate che sembrano fatte apposta per essere trasgredite. Come ha scritto Bruno Munari - uno che di giochi per bambini se ne intendeva - “la regola non deve uccidere la fantasia”. Ed è per questo che Matteo Negri non si limita ad usare le suggestioni provenienti dai giocattoli della Lego per intessere una trama di fitti rimandi alla Storia dell’Arte o alle immagini della cultura di massa, ma arriva a forzare i limiti fisici del modulo, sottoponendolo a impossibili torsioni, ad annodamenti e addirittura a fusioni. Proprio come fanno i bambini quando, stanchi di un gioco, ne fanno un oggetto d’indagine e uno strumento di verifica del proprio potenziale distruttivo.
In fin dei conti, l’ego a cui si fa riferimento nel gioco di parole del titolo non è il motore stesso di questa continua trasgressione della norma, del canone, della regola, che è poi il senso ultimo dell’arte occidentale? Da Giotto in poi - ma sospetto anche prima - l’artista non si è forse mosso seguendo una logica tecnicamente progressiva, di continuo superamento dei limiti linguistici e formali? Ciò che distingue il gioco di Negri da quello dei bambini è quindi quell’intenzione, quella finalità di superamento, che ha anche, ma non solo, un risvolto di tipo tecnico. Infatti, nelle sculture in bronzo lucidato intitolate Lego Gold, eseguite con la tecnica della fusione a cera persa, i mattoncini sembrano liquefarsi per effetto dell’esposizione alle temperature di un altoforno, mentre in quelle intitolate Lego Silver, assumono le sembianze di nodi, di legature, di nastri o di grovigli. In ogni caso, l’elemento modulare che nelle composizioni quadrate e ortogonali è ancora integro, in queste opere perde ogni connotato. Le forme si sfaldano, le geometrie si corrompono e la creatività prende il sopravvento sulla regola. Cosa che accade in qualsiasi gioco quando i giocatori diventano bravi al punto da dominare le regole, giocando senza prestarvi una particolare attenzione. Allora, in quella maestria meccanica, in quella confidenziale routine può accadere qualcosa di nuovo. Come nel caso di un corpo celeste che ruoti intorno alla propria orbita e che, ad un certo punto, per eccesso di velocità (o di bravura?), infili un’impossibile tangente. L’arte è qualcosa di simile a questa fuoriuscita da un’orbita conosciuta. Per questo Matteo Negri ha incominciato con l’adottare un modulo, moltiplicandolo e declinandolo in ogni possibile variante fino a tramutarlo in qualcosa di completamente diverso.